Nel cuore pulsante delle aziende contemporanee si riflettono le contraddizioni della società iperconnessa e iperperformante. Se da un lato le organizzazioni promuovono l’innovazione, la condivisione e il benessere dei propri collaboratori, dall’altro rischiano di alimentare, spesso inconsapevolmente, un clima di costante disponibilità, confronto e autoregolazione forzata che può diventare terreno fertile per lo sviluppo di dipendenze comportamentali.
In questo scenario, la tecnologia aziendale non è più solo uno strumento, ma un vero e proprio specchio moltiplicante, capace di riflettere e amplificare le dinamiche relazionali e psicologiche interne. Uno specchio che non solo ingrandisce ciò che c’è, ma lo moltiplica, lo rende simultaneo, lo sincronizza a tutte le ore. Il tempo del lavoro non è più quello della scrivania: è always on, costantemente connesso.
Pseudo-connessione e isolamento nei team digitali
Lo smart working e gli strumenti di collaborazione virtuale hanno rivoluzionato il modo di lavorare, ma anche trasformato profondamente le modalità di relazione. Le piattaforme digitali aziendali – da Teams a Slack, da Zoom alle app di gestione dei progetti – promettono collaborazione continua e visibilità costante. Tuttavia, come afferma Sherry Turkle in Reclaiming Conversation (2015), “la connessione può avvenire senza conversazione, ma la conversazione è ciò che ci rende umani”. L’apparente iperconnessione dei team può tradursi in un’assenza di relazioni autentiche, con conseguenze sul senso di appartenenza e sulla coesione organizzativa.
Un project manager che si confronta quotidianamente con colleghi in tre fusi orari diversi può trovarsi a rispondere a messaggi anche di notte, temendo di “non esserci abbastanza”. Allo stesso tempo, può sentire una crescente distanza emotiva e relazionale, in una dinamica di solitudine digitale mascherata da collaborazione continua.
Il mito della performance continua e la “tirannia della felicità”
Nella cultura aziendale attuale, la ricerca del benessere – spesso tradotta in KPI, dashboard e survey trimestrali – rischia di trasformarsi in una tirannia della felicità. Le emozioni dissonanti (stanchezza, noia, frustrazione, incertezza) vengono sistematicamente rimosse o nascoste, in favore di un clima motivazionale perenne. Secondo Edgar Cabanas e Eva Illouz in Happycracy. Come la scienza della felicità controlla le nostre vite (2018), “la felicità è diventata un imperativo, un dovere personale e una metrica di performance”.
In molte aziende, il “wellness aziendale” si traduce in attività come yoga in pausa pranzo, programmi mindfulness, coaching motivazionale. Ma raramente i dipendenti hanno la possibilità di prendersi dello spazio per affrontare temi come ansia e pressione: obiettivi irrealistici, feedback continui, valutazioni costanti, ipercompetitività tra colleghi.
Come osserva Byung-Chul Han in La società della stanchezza (2010): “il soggetto prestazionale si autoconsuma, diventa preda di una libertà che si trasforma in auto-sfruttamento”. Nelle aziende questo auto-sfruttamento si mimetizza dietro espressioni come “passione per il lavoro” o “spirito di ownership”.
FOMO professionale e dipendenze “nobili”
Un altro elemento chiave nei contesti aziendali è la FOMO (Fear of Missing Out) professionale – la paura di perdersi opportunità, visibilità o avanzamenti. Questa ansia sottile spinge a dire sempre di sì, restare sempre aggiornati, rispondere subito, partecipare a ogni riunione, anche se superflua. Il risultato è un comportamento iperattivo che può sfociare in dipendenze comportamentali.
Alcune dipendenze, peraltro, appaiono “nobili” o socialmente premiate in azienda: il lavoro compulsivo (workaholism), l’ossessione per la produttività, il bisogno di essere sempre disponibili. Sono comportamenti apparentemente funzionali, ma che rispondono spesso a vuoti identitari, ansia da prestazione e bisogno di controllo.
Secondo Gabor Maté, autore del libro In the Realm of Hungry Ghosts (2008), “la dipendenza non è la causa del dolore, ma la risposta a esso”. In azienda, il comportamento compulsivo può essere la risposta a un clima di insicurezza, a una leadership ambigua, o a una cultura che non ammette fragilità.
Le dipendenze comportamentali in contesto aziendale: segnali e rischi
Le dipendenze comportamentali seguono dinamiche simili a quelle delle dipendenze da sostanza, come la tolleranza (servono più ore per sentirsi soddisfatti), l’astinenza (ansia o malessere quando non si lavora o si è disconnessi), il craving (desiderio irrefrenabile di “controllare la mail”, “essere aggiornati”). Questi segnali vengono spesso normalizzati in azienda, o peggio ancora, premiati.
Inoltre, si osservano fenomeni di minimizzazione e negazione del problema: un dipendente iperconnesso viene considerato “molto presente”, uno che non stacca mai è “molto motivato”. Ma questi comportamenti, a lungo andare, erodono la salute mentale, alimentano burnout, disconnessione emotiva e turn over silenzioso.
Coltivare ambienti di lavoro autentici e consapevoli
Contrastare la cultura della dipendenza comportamentale in azienda significa riscoprire il valore della presenza autentica, della gestione sostenibile del tempo e della valorizzazione delle emozioni “scomode”.
Carl Rogers ci ha insegnato che “l’accettazione incondizionata è la base della crescita”: ciò vale anche per i contesti lavorativi. Un ambiente che accoglie l’errore, l’incertezza, la fatica, diventa un luogo sicuro dove le persone possono fiorire senza dover rincorrere performance costanti.
Serve un cambiamento culturale che riporti l’attenzione su ciò che conta davvero: relazioni sane, tempo di qualità, confini chiari tra vita e lavoro, spazi personale nei quali guardarsi dentro. Come scrive Adam Grant in Think Again (2021), “la capacità di riconsiderare le proprie convinzioni è una delle chiavi del successo nel mondo complesso di oggi”. Le aziende che sapranno mettere in discussione il mito della produttività infinita e fornire spazi di vulnerabilità autentica saranno quelle capaci di generare valore umano e non solo economico.
In conclusione, la cultura aziendale contemporanea, pur tra le migliori intenzioni di crescita e benessere, può contribuire allo sviluppo di dipendenze comportamentali invisibili, soprattutto quando confonde felicità con prestazione, connessione con disponibilità costante, motivazione con iperattività. Riconoscere questa dinamica è il primo passo per costruire ambienti di lavoro più umani, dove il benessere non è una maschera da indossare, ma una realtà che può convivere con le nostre fragilità a cui dare spazio.
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